domenica 20 gennaio 2008

Wendy Carlos Switched on Bach 1968


Recensione di: Eneathedevil, (Monday, November 20, 2006) | Voto: * * * * *
Storia essenziale della musica elettronica

L'elettronica è un oggetto strano. Lo esaminano e vivisezionano i novecentisti del Groupe de Recherche tra un oscillatore e un pendolo, tra un theremin e un té con Cale, attraverso l'edizione di una serie di lavori intenti a seguire la scia della musica concreta della Gesang der Junglinge. La Messe di Henry ha appena aperto i battenti nell'Europa dei caffè letterari, e se da un lato sembra che il sound elettronico si sia già spostato verso peculiarità più moderne e accessibili, dall'altro è fatto ormai accetto che l'elettronica sia ancora avulsa dal contesto popolare. Alla vigilia della nuova rivoluzione musicale gli eccentrici Beach Boys propongono nel divertente Good Vibrations il sapore stricninico del theremin, ma i juke-box californiani sono tutti intenti a diffondere più l'anima rock che lo spirito elettrodinamico dell'ensemble: il 45 giri è un successo mondiale, ma non riesce nel ruolo di promotore del suono elettronico.
Eppure sarebbe stato proprio l'odiosamato occidente a comandare l'avvento della nuova veste popolare della musica elettronica. Nel fermento di una New York divisa tra vecchie e nuove tendenze, Walter Carlos si ritrova tra le mani i sintetizzatori di Robert Moog e decide, per pura fatalità, di farne sinfonia. E' il momento in cui il genio trascende l'arte, e proprio nell'arte trova una risposta ai propri quesiti: come rendere l'elettronica dei synth un oggetto fruibile? Recuperando la lectio dei numi tutelari, s'intende: in men che non si dica Johann Sebastian Bach viene modellato attraverso le note magmatiche del sintetizzatore. L'intuizione di Carlos prende forma in quello che risulta essere il primo documento ufficiale della musica elettronica popolare: Switched-on Bach, raccolta di excerpta del maestro di Eisenach ove classica ed elettronica si fondono in un esperimento di mirabile impatto. E' il 1968, anno insospettabile, quando Switched-on raggiunge un incredibile successo internazionale: il mondo riconosce Bach nell'elettronica, e, fattore ancor più determinante, conosce l'elettronica attraverso Johann. Un binomio improbabile quello che accomuna classica ed elettronica, ma inaspettatamente efficace. La scelta di Walter Carlos è lungimirante: nell'epesegetico volumetto bachiano trovano posto i classici del clavicembalista tedesco, in un repertorio che spazia dall'Invenzione a Due Voci all'Aria, dal Preludio alla Fuga. Così, con leggiadra maestria trovano una dimensione elettronica il celebre adagio del Concerto Brandeburghese n. 3 in Sol minore, la frenetica Invenzione a Due Voci in Fa maggiore, la lieve Aria sulla Quarta Corda. L'effetto ottenuto è seducente: il tesoro musicale di Johann Sebastian appare in una nuova veste volutamente stigmatizzata, plasmabile e popolare. E' forse l'inclita Cantata n. 147, Herz und Mund und Tat und Leben a consegnare nelle mani di Walter Carlos il più nitido ed inaspettato dei successi: la versione elettronica sarà in grado di soppiantare quella originale, attribuendo alla produzione musicale di Bach un'affascinante dimensione moderna e, perché no, profetica. Il successo del lavoro, arricchito da altri Preludi e Invenzioni è immediato, ben più netto di quello che sarebbe stato l'effettivo studio peculiare delle risorse del sintetizzatore, il Well-tempered synthesizer a contenuto sinfonico plasmato da Walter nel 1969, prima delle nuove versioni dei Concerti Brandeburghesi e la seconda agognata raccolta Switched-On Bach 2.
Switched-On Bach è il primo esempio di elettronica pura dall'impatto popolare, l'epigone di tutti quei lavori interamente o parzialmente elettronici che si baseranno su una cifra musicale immediata per far presa sull'uditorio. Nella sua caratteristica più peculiare, però, il lavoro trova il suo limite: il riferimento a Bach sottointende l'assenza di un'identità propria dell'elettronica. Con Switched-On la musica elettronica si limita alla forma, non si estende alla materia: il contenuto è quello della musica classica settecentesca, e non è un caso che il pubblico di Carlos abbia ben accolto i bis su Bach, trascurando i successivi lavori più sperimentali dell'americano.
Saranno necessari altri anni per scoprire la prima vera identità a sé stante della musica elettronica, ma in circostanze meno note e in altri lidi. . .
P. S. = In questa recensione compare più volte il nome di Walter Carlos, differente dall'effettivo nome riportato sulla maggior parte delle riedizioni moderne di Switched-On Bach: il nome Wendy Carlos, in testa a questo capitolo, fa riferimento all'appellativo ottenuto dall'ermafrodite americano per il riconoscimento del suo stato di appartenenza al genere femminile avvenuto nel 1972.

da fonte:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_14428/Wendy_Carlos_SwitchedOn_Bach.htm

alla ricerca della perfezione sto scalando la vetta della nostra vita musicale e vi segnalo questo album particolare e magico...

ciao da gianca e alla prossima!

le variazioni della felicità secondo gianfolletto


prefazione di gianca

si sa che la perfezione nella vita non esiste e forse è la verità, però a volte la percentuale può avvicinarsi al 100% ed il mio intento è proprio quello di raggiungere il 100%...
dopo aver ascoltato l'album di Jacques Loussier in stile jazz delle variazioni di Goldberg ero convinto di essere giunto sulla cima della vetta paradisiaca della musica...ma con la mia proverbiale voglia di scoprire nuovi orrizzonti, ho scalato una montagna bellissima dove in cima ho scoperto questo favoloso album, che con gioia lo giro a tutte le persone che amano deliziare le proprie ore in questo pianeta chiamato terra...con questa magica musica e le sue splendide variazioni!!

ciao da gianca e alla prossima e vi segnalo questa recensione

Recensione di: Hal, (Tuesday, September 02, 2003) | Voto: * * * * *

Le Variazioni Goldberg (BWV 988) di Johann Sebastian Bach rappresentano senza dubbio una delle pagine piú belle della storia della musica.
In passato tanti interpreti si sono cimentati con quest'opera di Bach, da Glenn Gould a Keith Jarrett, ma mai nessuno aveva osato tanto come Uri Caine. Infatti, accompagnato da una nutrita schiera di musicisti di ogni genere musicale, questo colto, eclettico, intelligente ed irriverente pianista originario di Philadelphia reinventa le Variazioni di Bach con disincanto, ironia e coraggio.
Uri Caine non è nuovo ad esperimenti del genere, avendo riletto in passato la musica di Mahler (Primal Light del 1997), Wagner (Wagner e Venezia del 1997), Schumann (Love Fugue del 2000) e piú di recente le Variazioni Diabelli di Beethoven (2003).
Tuttavia, l'approccio con Bach rappresenta forse il suo esperimento piú audace ed originale.
Coerentemente con la sua formazione jazzistica, Uri Caine rilegge e moltiplica le Variazioni Goldberg, costruendo un percorso musicale affascinante. Tutto comincia con le note di una semplice, quanto meravigliosa, Aria, interpretata in chiave filologica attraverso un forte piano Sibermann, per poi evolversi in un caleidoscopio di suoni lungo 70 variazioni che spaziano dal jazz, al blues, al tango, al gospel, al ragtime, al kletzmer, al valzer, al mambo, fino ad arrivare alle diavolerie elettroniche di DJ Logic.
Non mancano, ovviamente, variazioni per così dire "classiche". In particolare, Caine si diverte a costruire brani nello stile di Vivaldi, Mozart, Verdi e Rachmaninov.
Un disco caratterizzato, quindi, da stili musicali estremamente diversi che, unendosi e dividendosi di continuo, trascinano per quasi due ore e mezzo l'ascoltatore senza un solo momento di stanchezza.

Chi vive la musica senza pregiudizi non può non avere questo disco.

da fonte:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_1398/Uri_Caine_Ensemble_The_Goldberg_Variations.htm

Paul Bley
Solo In Mondsee
(ECM)

Sono i primissimi anni settanta, e stiamo guardando un programma televisivo proverbialmente serio (era TV7? o forse Almanacco? - a quei tempi esistevano solo due canali televisivi di Stato, e le trasmissioni erano tutte in bianco e nero). Il tema del servizio in onda è la musica elettronica, un'entità alquanto misteriosa della cui esistenza il grande pubblico dei non specialisti è da non molto divenuto consapevole grazie all'enorme successo mondiale - e conseguente notorietà "di costume" - di un album di Walter Carlos intitolato Switched-On Bach, laddove il musicista ha riadattato arie celebri del grande compositore eseguendole su un sintetizzatore Moog. La telecamera inquadra un signore barbuto di una certa età; l'intervistatore gli chiede qualcosa come "Puoi farmi sentire come fai una bomba atomica?", e il barbuto signore prontamente esegue. L'effetto non è un granché, e il barbuto signore dice "Beh, devo ancora perfezionare la mia bomba atomica".
Perfettamente consci dell'esistenza della categoria dei "ricordi fittizi", dobbiamo però ammettere di essere fortemente convinti che il barbuto signore in questione fosse davvero Paul Bley, all'epoca men che quarantenne; mentre non riusciamo a ricordare se la sua partner in musica di quel tempo, Annette Peacock, fosse in quell'occasione accanto a lui. E quella era una visione davvero buffa per chi aveva quali punti di riferimento sintetici il Moog Serie III modulare di Keith Emerson degli immensamente popolari Emerson Lake & Palmer e l'agile Minimoog suonato da Don Preston sul brano Lonesome Electric Turkey, entusiasmante picco strumentale dell'album di Frank Zappa intitolato Fillmore East, June 1971.
Una cosa comunque è certa: abbandonata di lì a poco l'esplorazione sintetica, Paul Bley trasferì quel suo interesse per la grana del suono sul pianoforte, lo strumento del quale nel corso del precedente decennio era già stato un esponente di primo piano. La versione comunemente accettata è che, in procinto di registrare un nuovo album per solo piano, il musicista richiese una diversa - e più "intima" - ripresa microfonica; ed è proprio su quell'album - il mai abbastanza lodato Open, To Love del 1973 - che si può dire nasca quello che comunemente chiamiamo "il suono ECM" (e anche quello di Keith Jarrett?). Da parte nostra segnaliamo le parti di mano sinistra su Not Zero: In Three Parts e Now, ambedue presenti su Not Two, Not One, l'eccellente album del 1999 che Bley ha condiviso con Gary Peacock e Paul Motian: diremmo che mai note di pianoforte sono apparse a tal punto quali "frutto di sintesi".
Discografia decisamente vasta, Paul Bley è musicista il cui nome non può che essere definito quale "certamente noto": le enciclopedie e i volumi sul jazz non mancano di riservargli uno spazio, le riviste specializzate ne recensiscono gli album, e se si abita in una città dove si tengono abitualmente concerti di jazz prima o poi capiterà di vederlo. Tutti d'accordo nel citare il suo interesse per il suono e il suo modo personale di coltivare il silenzio, e ampie lodi per la sua sensibilità di interprete, in primis su Open, To Love (album al quale accosteremmo volentieri Homage To Carla del 1993).
Ma non di rado abbiamo avuto l'impressione che il lavoro di Bley sia stato per certi versi snobbato, quasi esso fosse quello di un pianista mainstream che in fondo non vale la pena di indagare con attenzione. E diremmo che questa scarsa considerazione sia stata largamente diffusa fino alla pubblicazione di Time Will Tell (1995), il bellissimo album che ha visto il pianista affiancato dal sassofonista Evan Parker (allora cos'è, basta la parola?) e dal contrabbassista Barre Phillips (il trio ha poi avuto un seguito nell'altrettanto valido Sankt Gerold Variations, pubblicato nel 2000).
Volendo lestamente stilare un elenco delle possibili ragioni di sottovalutazione, ai primi posti andrebbe certamente il suo essere stato (sottile) interprete di composizioni tanto personali quanto quelle di Carla Bley (nata Borg); composizioni alle quali è possibile affiancare (per carattere, se non per "tipo") quelle di Annette Peacock; ambedue personalità decisamente colorite, tra l'altro.
Ma Bley ha esordito accanto a Charles Mingus e Art Blakey; ha avuto accanto a sé, su un suo album, l'intero quartetto di un Ornette Coleman non ancora in trasferta newyorchese; ha suonato sia con Sonny Rollins che con Albert Ayler e Milford Graves. Allora?
Come lesta ipotesi metteremmo in evidenza la cornice "Free Jazz" degli anni sessanta, una "rivoluzione in musica" fatta prevalentemente da trombe, sassofoni, tromboni, batterie e contrabbassi, e non certo - eccezion fatta per Cecil Taylor - da pianoforti (dove sarebbe finito McCoy Tyner senza John Coltrane? e quanti conoscevano Muhal Richard Abrams?); e da neri - eccezion fatta per Roswell Rudd - piuttosto che da bianchi. Certo è che è stato un musicista d'avanguardia visto da non pochi come un "traditore del suo popolo", Anthony Braxton, a rivalutare per primo l'apporto di musicisti quali Warne Marsh e Lee Konitz. Ed è proprio accanto a un musicista della "rivoluzione tranquilla" quale Jimmy Giuffre (il cui nome leggemmo per la prima volta, pronunciato da Carla Bley, solo a metà degli anni settanta), su album quali Fusion, Thesis e Free Fall, che Paul Bley diede il suo contributo innovativo e sottile.
Registrato nell'aprile del 2001, Solo In Mondsee vede Paul Bley dialogare con un possente ma delicato Bösendorfer Imperial (i cui bassi poderosi aprono l'album) per una serie di dieci "variazioni".
Variazioni su cosa? Beh, diremmo che Bley - che ovviamente improvvisa buona parte di quello che ascoltiamo - è intento a seguire un suo filo musicale che tiene ben presente standard e classici. Quali non sapremmo dire, anche se di tanto in tanto (quella commistione tra qualcosa che sa di Chopin e una canzone "pop" degli anni quaranta che apre II; il tema iniziale, e la quasi chiusa, di VI; l'"andante con moto" di VIII) ci è parso - forse ingannevolmente - di avere qualche titolo sulla punta della lingua.
Cosa che ci ha per certi versi ricordato quel Thelonious Monk che in solitudine, su album della seconda metà degli anni cinquanta quali Thelonious Himself e Thelonious Alone In San Francisco, rileggeva vecchi standard che l'ascoltatore odierno conosce solo per l'esecuzione fattane da lui! Monk fa comunque capolino qua e là, in un accordo blues, in una pausa sospesa, in un cenno di Functional.
E' bello seguire il filo che percorre questo lavoro, vedere il pensiero scartare una soluzione a portata di mano, evitare una cadenza banale, inserire un dissonanza, ripetere una nota. Imprevedibili ma logiche le chiuse "decise" di II e VIII. Bassi in evidenza, note alte "stoppate" (ma l'uso dei pedali è da gustare su tutto l'album), una "tempesta" che poi vira verso il blues, VII è forse il brano più bello.
Chiusa spiazzante, X è un "funky & bossa" dal sapore latino (e un bell'inciso "funereo") dove - potenza del tocco - la sinistra sembra percuotere un Fender Rhodes d'annata: eccellente!
Tutto a posto, capolavoro, cinque stelle eccetera? Diremmo che i microfoni che tanto bene hanno ripreso il pianoforte non siano stati meno efficaci nel consegnare ai posteri la voce di Paul Bley intento a percorrere in parallelo il tragitto delle sue mani. E qui, ognuno dovrà necessariamente regolarsi da sé.

articolo di Beppe Colli

© Beppe Colli 2007
CloudsandClocks.net | Dec. 27, 2007

articolo da fonte:
http://www.cloudsandclocks.net/CD_reviews/bley_sim_I.html

grazie Beppe per il tuo articolo su Paul Bley che ci aiuta a comprendere meglio i vari aspetti con cui la musica può regalarci degli attimi di felicità!!...

gianca e alla prossima!...

lunedì 14 gennaio 2008

in fuga dalla civiltà grazie a Sean Penn


Roma Film Festival: Into The Wild, Recensione in Anteprima!
pubblicato: giovedì 25 ottobre 2007 da dr. apocalypse in: Anticipazioni Festival e rassegne Recensioni Americano Drammatico Roma Film Festival
E alla fine il capolavoro assoluto a questa Festa del Cinema di Roma è finalmente arrivato!
Into The Wild si candida da subito alla corsa dei prossimi Oscar, felice di poter brandire la palma di miglior film della stagione e tra i più belli degli ultimi 10 anni.
Diretto da Sean Penn, tratto dal bestseller di Jon Krakauer, Nelle terre Estreme, ed interpretato da un mostruoso Emile Hirsch, il film a mio avviso tende a toccare la perfezione più assoluta.
La storia narrata è quella di Chris McCandless, ventiduenne fresco di laurea, con un promettente futuro di fronte a sè, deciso ad abbandonare tutto e tutti per partite all’avventura, verso l’ignoto, nella natura più selvaggia, Into The Wild.
Nel corso del viaggio, durato due anni, Chris cerca disperatamente di capire se stesso ed il posto che dovrebbe occupare nel mondo, abbandonando la sua vecchia identità, creandosene una nuova, fuggendo dalla famiglia, bruciando soldi e averi, pronto ad intraprendere un viaggio lontano da una società consumistica, attaccata al vile denaro, violenta e rissosa, in cerca di una pace interiore ed esteriore, con un traguardo finale ben preciso… l’Alaska.

articolo da fonte:
http://www.cineblog.it/post/7651/roma-film-festival-into-the-wild-recensione-in-anteprima

questo stupendo film è ispirato al romanzo "Nelle terre estrme" di Jon Krakauer edito da Corbaccio e racconta la storia vera legata ad un lungo viaggio alla ricerca della felicità e della verità nell'America degli emarginati.Un lungo viaggio che al cinema dura circa due ore,scandito da una colonna sonora straordinaria grazie a Eddie Vedder dei Pearl Jam e ad ulcuni pezzi di chitarra di Michael Brook e Kaki King....da non perdere assolutamente!...fidatevi di gianca,ok??

ciao e alla prossima gianca

domenica 13 gennaio 2008


Recensione di: Grafton, (Sunday, April 08, 2007) | Voto: * * * * °

Koten, Sassonia, 1717-1723: Johann Sebastian Bach compone i "Concerti Brandeburghesi" e li dedica al margravio Christian Ludwig di Brandeburgo.

Parigi, Francia, 2006: Al "Palais des Congrés" il pianista Jacques Loussier inizia a registrare, insieme al contrabbassista Benoit Dunoyer de Segonzac e al batterista André Arpino, una sua particolare interpretazione di quei sei concerti.
Ed ora, eccoci qui con il prodotto finito, tra le nostre mani. Jacques Loussier, da sempre interessato alla ricerca di una perfetta "fusione" e rilettura della musica classica in chiave Jazz, sembra aver centrato il bersaglio, riportando la musica di Bach alla sua immediatezza ed essenzialità. Spogliando gli arrangiamenti orchestrali e concentrandosi solo sul tema principale, conducendo poi esso ad un'improbabile (per i puristi) improvvisazione Jazz, il pianista ci fa capire fin da subito il suo intento: quello di omaggiare il compositore tedesco, mettendo in risalto la poliedricità dei Concerti Brandeburghesi e sottolineando come essi possano essere visti da angolazioni diverse.
Le composizioni non sono particolarmente sviluppate, sono soltanto schizzi, improvvisazioni vere e proprie che però, proprio in virtù della loro semplicità risultano vincenti. Così eccoci qui ad ascoltare una versione minimale dei primi 3 movimenti del Primo Concerto che della musica di Bach originale hanno solo lo spirito, il tema di fondo e non molto altro. Ma d'altronde questa non è un' opera di pura e semplice citazione; i passaggi che portano la band dallo sviluppo del tema classico all'improvvisazione jazzata vera e propria sono davvero godibili e notevoli (merito dell'ottima coesione strumentale del trio) e noi, ascoltandoli non possiamo che rimanerne affascinati.
Il metodo di composizione quindi, è lo stesso per tutti i concerti, fatta eccezione per il quinto. Qui i tre movimenti sono studiati più accuratamente, non ci si ferma alla superficie e all'essenza della musica di Bach, ma si cerca, per quanto possibile, di scavare più in profondità. E anche se questo è un pò in contraddizione con il resto del disco, dove i brani vengono esaltati nella loro semplicità, la rielettura del 5 Concerto non solo risulta particolarmente efficace, ma diventa anche, a mio modo di vedere, l'episodio centrale del disco e il migliore. Impossibile non rimanere stupiti di fronte alla minuziosa ricerca di incontro tra tema classico e improvvisazione jazzata (perfettamente riuscita) del Primo Movimento, cosi come nel Secondo e nel Terzo, dominanti dal contrabbasso dalla cavata profonda di Benoit Dunoyer.
Loussier disse che "questo disco mi ha riportato al centro della musica di Bach, alle sue radici, alla sue essenza" e noi, non possiamo che concordare con lui, pur rimanendo particolarmente entusiasti di fronte alle più laboriose riletture del Quinto Concerto.
Un lavoro che farà storcere il naso ai puristi di Bach, ma che consiglio a chi avesse voglia di rimanere piacevolmente sorpreso da questo Trio che, con doverso rispetto, si è avvicinanto alla musica di Bach, l'ha manipolata e ne ha mostrato un lato del tutto nuovo, ma terribilmente affascinante.

articolo da fonte:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_17076/Jacques_Loussier_Bach__The_Brandenburgs.htm

a volte la musica può rendere felici le persone ed io sono riuscito nel mio intento...un grande loussier in stile jazz-classica ci riporta bach sul pianeta terra per regalarci lacrime di gioia!!....

ciao e alla prossima

grazie a loussier un bach allo stile jazz!!...divino


di Elisa Bianchini

Cosa c’entra Bach col jazz? E’ questa senz’altro la domanda più immediata di fronte ad un musicista come Jacques Loussier, un riconosciuto pianista jazz che si confronta non solo con la musica classica – tradizionalmente tempio del rigore e della cultura "alta" – ma in particolar modo con Bach, con la sua perfezione quasi geometrica. E’ vero che anche ai tempi di Bach era un divertimento consueto, fra musicisti, quello di riprendere temi e melodie noti per trasformarli attraverso innumerevoli variazioni, e che questo principio di infinita variazione su un tema è una delle cifre della musica jazz. Tuttavia, sia gli appassionati di musica classica che i "puristi" del jazz sono rimasti diffidenti di fronte alla musica di Jacques Loussier e del suo trio.
Ma il lavoro portato avanti dal Trio Loussier si distacca notevolmente da altri esperimenti di "contaminazione" frequenti nella musica jazz; da un lato, musicisti come Benny Goodman o Winton Marsalis si sono confrontati con partiture classiche, eseguendole in modo tradizionale, quasi a ricercare una legittimazione del jazz negli ambienti della cosiddetta "musica colta"; dall’altro, molti musicisti hanno ripreso nel corso delle loro jam session motivi celebri "presi a prestito" dall’opera lirica o dalla musica sinfonica (un esempio per tutti la "Habanera" dalla "Carmen" di Bizet, insistentemente rievocata da Dizzy Gillespie). Possiamo dire che la musica del Trio Loussier risulta da entrambe queste tendenze: una sapiente armonia fra l’esecuzione del brano e la ripresa delle suggestioni da esso ispirate, fra la perfezione formale della musica di Bach e l’improvvisazione solistica del jazz: è sorprendente come si ritrovi in questo concerto tutto lo spirito di Bach, ma come allo stesso tempo esso sia calato nelle atmosfere rarefatte di un jazz sofisticato ed elegante. Probabilmente un genere nuovo, che può interessare e attrarre gli appassionati di due modi di fare musica tradizionalmente separati e ritenuti incomunicanti.
Compositore: Johann Sebastian Bach

articolo da fonte:
http://www.kalporz.com/recensioni/playbach.htm

grazie al mitico loussier bach sembra rivivere in stile jazz!!...musica favolosa!!..

ciao e alla prossima gianca

sabato 12 gennaio 2008

il Blue Note di Milano...un locale chic per sognare...


La Monte Carlo Nights Orchestra nasce da un'idea di Nick the Nightfly grazie alla sua passione per le Swinging Big Bands. Con la direzione di Gabriele Comeglio e con il patrocinio di Radio Monte Carlo e del suo editore, Alberto Hazan, nasce una nuova orchestra nel panorama musicale italiano, con un organico eclettico, in grado di eseguire diversi stili musicali: dallo Swinging Jazz delle Big Band al Soul Jazz fino a toccare un Pop raffinato.
E' possibile ascoltare Nick the Nightfly e la Montecarlo Nights Orchestra nel nuovo cd "Live At The Blue Note Milan" su etichetta Nikto Edel Italia. L'orchestra accoglie alcuni dei più prestigiosi nomi presenti sulla scena musicale italiana; si tratta di session men e solisti di indiscusso valore con una grande esperienza orchestrale alle spalle.
L'album è stato registrato live al Blue Note di Milano nel dicembre 2003. Piacevolissimo l'ascolto di questo cd, che tra l'altro contiene celebri successi densi di atmosfera e di swing quali Strangers in The Night, Fly Me To The Moon, e I've Got You Under My Skin, resi famosi a livello mondiale da Frank Sinatra, Walk On By di Burt Bacharach, Every Day I Have The Blues e Splanky, di Count Basie.
Ospite della serata, e grande amica di Nick, Sarah Jane Morris, che duetta con lui in The Look Of Love e Raindrops Keep Falling On My Head e canta come solista in Me And Mrs. Jones.
I brani sono stati eseguiti con fedeltà rispetto alle loro versioni originali. Nick the Nightfly, celebre ed esperto dj radiofonico (Radio Monte Carlo), si rivela anche un piacevole cantante e interprete. Inoltre, suo è un brano originale dedicato a Duke Ellington: "BSwing". L'ascolto di "Live At The Blue Note Milan" è estremamente gradevole, lo swing è garantito.
Eva Simontacchi per Jazzitalia

articolo da fonte:
http://www.jazzitalia.net/recensioni/Nick_liveatbluenote.asp

per festeggiare alla grande i propri sogni, una sera al blue note di milano, locale magico con del jazz mitico...da non perdere!!...prossimamente sul pianeta terra!!...

ciao da gianca e alla prossima!...

Nick the Nightfly and The Monte Carlo Orchestra
Live at the Blue Note Milan

1. Everyday I Have The Blues (Chatman)
2. Strangers in The Night (Kaempfert – Snyder – Singleton)
3. I've Got You Under My Skin (Cole Porter)
4. Walk On By (Burt Bacharach – Hal David)
5. Music To Watch Girls By (Ramin – Velona)
6. The Look Of Love (Burt Bacharach – Hal David)
7. Me And Mrs. Jones (Gamble – Huff)
8. Wives And Lovers (Burt Bacharach – Hal David)
9. BSwing (Nick the Nightfly – Gabriele Comeglio)
10. Raindrops keep Fallino On My head (Burt Bacharach – Hal David)
11. Fly Me To The Moon (Howard – Roth)
12. Splanky (Neal Hefti)

due cuori in atlantide...


Un vecchio guantone da baseball ricevuto improvvisamente per posta costringe Bobby Garfield, affermato fotografo di mezz'età, a ritornare indietro nel tempo e nel luogo, a quella lontana estate del 1960, quando straordinari eventi segnarono la fine della sua infanzia. È la mattina del suo undicesimo compleanno quando, nella casa dove Bobby (Anton Yelchin) abita con la madre, arriva Ted Brautigan (Anthony Hopkins). L'uomo è tormentato da un passato misterioso, e da strane trance precognitive che lo angosciano, eppure è in grado di instaurare col ragazzino un profondo rapporto di amicizia, prestandogli quelle attenzioni che la madre vedova (Hope Davis), troppo amareggiata e disillusa, non è in grado di dare al figlio. È così che Bobby scopre i valori dell'amicizia e del coraggio, ed è così che si innamora per la prima volta della sua compagna di giochi, Carol. Ma gli eventi precipitano, Carol è picchiata a sangue da un ragazzetto crudele, la madre di Bobby scopre a proprie tragiche spese la verità sul suo datore di lavoro, e Ted è costretto a rimettersi in fuga: gli uomini grigi che da tempo lo stanno braccando sono ormai vicini. Solo Bobby è in grado di capire il perché e di aiutarlo. Scott Hicks, già regista del pluripremiato Shine, ci regala una convincente prova d'autore, sorretta dal racconto di Stephen King e dalla grande interpretazione di Anthony Hopkins, il cui sguardo malinconico disegna un personaggio sofferto, eppure capace di trasmettere amore e speranza.

articolo da fonte:
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=33741

una storia stupenda, che apre i nostri cuori nel segno dell'amicizia e dell'amore...Antony Hopkins divino!!...per nulla al mondo dovete lasciarvi scappare questo magico film!!...

ciao e alla prossima!...gianca

venerdì 4 gennaio 2008

Michel Petrucciani & Stephane Grappelli...per gli amanti del jazz


La vita senza musica è impensabile…..la musica senza vita è accademia… ecco perché il mio contatto con la musica è un'abbraccio totale"(L.Berstein)

STEPHANE GRAPPELLI - MICHEL PETRUCCIANI
Flamingo. Dreyfus Records - Distr. Sony Music
Stephane Grappelli - violino, Michel Petrucciani - piano, George Mraz - basso, Roy Haynes - batteria.
Parigi, 15-16-17 giugno 1995.

Un cd con un gusto particolare, molto indicato per chi vuole avvicinarsi al jazz e per chi ha sempre affermato di non amarlo, a volte per partito preso, perché è difficile amare qualcosa senza prima desiderare di conoscerla. Dicevo dal gusto particolare in quanto nel disco si incontrano due mondi musicali apparentemente diversi tra loro (Little peace in). Da una parte quel monumento del violino jazz che è stato Grappelli con quel suo modo di portare le note e di swingare che era tipico della sua generazione; e dall'altra Petrucciani, gigante del piano jazz moderno da poco scomparso, che come pochi è stato maestro nel fondere la profondità armonica di Bill Evans con l'estro ritmico di pianisti come, ad esempio, Herbie Hancock. Dicevo apparentemente diversi perché in realtà la loro comune appartenenza all'anima più vera del jazz li fa dialogare come due amici di vecchia data che si stimano profondamente, supportati poi dall'esperienza di un bassista solido e navigato come Mraz e dalla maestria di uno dei più grandi batteristi jazz della storia, Roy Haynes, che nel disco è proprio il punto d'unione tra questi due mondi.
Flamingo, il brano che da il titolo al cd, mette bene in risalto il lirismo e la capacità di manipolare la melodia propria di Grappelli, ma soprattutto esalta la voce del suo violino così struggente, a volte straziante e piena di nostalgia. Caratteristiche quelle appena descritte che ritroviamo in particolare in tutte le ballads del cd (These follish things, I can't get started, Misty e Lover man). Bellissimo l'arrangiamento di un vecchio brano come Sweet Georgia brown dove Petrucciani dimostra, con un creativo e al tempo stesso oculato assolo, di aver assimilato come per osmosi la lezione dei grandi del jazz. In generale tutto il cd emana una tenerezza e una familiarità con cui i musicisti si sono trattati e hanno interagito col materiale musicale.
Valse du Passé, brano di Grappelli che chiude il disco (in duo con Petrucciani) ha un sapore tutto particolare espresso bene da Petrucciani nelle note di copertina: "Quando hai l'opportunità di lavorare da vicino con un musicista come Grappelli e sei capace di condividere il suo segreto e la sua conoscenza della musica, allora tu sai che il jazz ti ama veramente".

Articolo preso da fonte http://www.jazzfriends.org/scritti.htm

mercoledì 2 gennaio 2008

Jacques Loussier - Impressions of Chopin's Nocturnes



a volte, nella nostra vita, il destino ci permette di conoscere casualmente delle persone,scoprire sugli scaffali delle librerie,letture magiche e nei negozi musicali album da sogno...
e l'esempio vivente è rappresentato da questo fantastico album dal titolo
"Impressions of Chopin's Nocturnes " interpretato al pianoforte in stile jazz da questo pianista/compositore francese Jaques Loussier nato a Angers, France il 26 ottobre del 1934...che ci regala momenti meravigliosi per le nostre ore notturne...visto i notturni di Chopin!!...

l'immagine della copertina proviene dal sito Ibs
www.internetbookshop.it

e l'immagine di jaques loussier proviene dal sito
http://www.universal-music.co.jp/jazz/artist/jacques_loussier/index.html